Franco Pedrina

Marina De Stasio

Il tema del vuoto e del pieno, dello spazio che penetra nelle cose, le scava e le separa si è fatto sempre più importante nel lavoro di Franco Pedrina di questi ultimi anni: egli dipinge vigneti fatti di segni, di linee guizzanti che tracciano una spazio ampio, curvo, fatto più di vuoto che di pieno eppure avvolgente e protettivo. Il mondo della natura offre al pittore le occasioni da cui nasce prima il ritmo vertiginoso delle tempere, con i verdi intensi e vitali e d il candore abbagliante del foglio di carta scoperto, intatto, il nulla da cui tutto può nascere; poi, meditato, a lungo vissuto e rivissuto, viene il dipinto a olio, un lungo lavorio in aggiungere e in togliere, uno stratificare il colore per poi scavarlo, mangiarlo fino ai toni neutri della preparazione della tela, che fanno risaltare, nella loro grezza nudità, frammenti di colore splendidi con smalti preziosi, i viola, i gialli come d’oro, i pochi tocchi densi e matrici d’azzurro vivo.
Gli spazi vuoti, sulla tela o sulla carta, sono il silenzio che Pedrina cerca e ama, il non detto che può dire più di mille parole: «Le melodie che si sentono sono dolci», ha scritto John Keats. Il vuoto sta dentro le cose ma anche sotto le cose, invenzione della pittura di Pedrina è questo posare tutto sul nulla, gli alberi, i ceppi tagliati e contorti, oggetti pesanti e leggeri: l’artista vuol darci il senso dello sradicamento, dell’assenza di legami, senza però comunicare un senso di precarietà o fragilità; il vuoto forma una base solida, sicura per queste cose della natura e dell’uomo che sono state strappate ad una vita per entrare in un’altra, come il ceppo reciso che, affondato nella terra, rinasce a nuova, più umile vita, rivestendosi di erbe e germogli; come la grande ruota del mulino, oggetto meccanico, voluto dall’uomo, che nell’eterno affondare e riemergere dall’acqua si fa verde di muschio, sembra nascere alla vita della natura.
Bellezza e crudeltà, violenza e dolcezza, distruzione e speranza: tra questi due poli, e sono i poli della natura e della vita tutta, si muove quest’arte fatta di lunga maestria, di antico amore per la pittura e per il mondo. La vigna d’inverno, con i toni freddi del bellissimo verdazzurro di cui Pedrina è maestro, ha l’andamento delle onde del mare, ora morbido e sinuoso ora aguzzo e taglinte, o forse è il nostro stesso respiro, il ritmo quieto della serenità e quello irregolare dell’angoscia che ci stringe alla gola. La vigna in primavera, nei suoi verdi teneri e germinali, è tutta percorsa come un brivido da linfe vitali, ansiosa, chissà perché, di rinascere, di ridare foglie e frutti.
Giustamente la critica ha parlato di Graham Sutherland a proposito di Pedrina1; la pittura è profondamente diversa - quella di Pedrina, magra e materia al tempo stesso, pur nella sua originalità, resta legata alla tradizione pittorica dell’Italia settentrionale di questo dopoguerra -, tuttavia ci sono affinità nel modo di avvertire il mistero della natura, le presenze fantastiche che sembrano materializzarsi da sole, senza la volontà dell’artista; è comune tra i due pittori il tema della metamorfosi, del continuo passaggio dall’organico all’inorganico e viceversa, e soprattutto è simile il modo di vivere la natura: contemplata con amore, sentita nella sua vitalità e trasformazione, ma senza la fisicità, gli umori, la carnalità del naturalismo.
Se a volte la composizione appare formata da una trama di segni in superficie che ingabbiano lo spazio con la grazia nervosa della scrittura orientale e con la bidimensionalità della stampa giapponese, altrove il quadro sfonda, affonda nello spazio, apre prospettive anche se non certo rinascimentali: il dipinto non permette mai all’osservatore di rimanere immobile, ma lo obbliga a seguire con gli occhi il movimento danzante dei segni, oppure ad inoltrarsi nello spazio, nell’oscurità misteriosa del bosco che promette rivelazioni ineffabili, ad avvolgersi nella spirale aperta del cuore del girasole o dell’anguria, che l’artista scava «come un recipiente nel quale immergersi e riposare»2; in entrambi i casi la tendenza è alla circolarità, ad un movimento avvolgente che abbraccia, rassicura, promette. Sono mondi che l’artista individua studia, fa suoi: la testa china e scura di un girasole disseccato o il tondo carnoso di un’anguria o la chioma di un albero, oppure l’intera volta celeste, che differenza fa? Sono mondi in cui perdersi, cercare e ritrovare se  stessi o l’altro da sé. «Cerco intermediari tra me e l’Altro, tra me e Dio», ha detto Pedrina in una conversazione con Filippo Abbiati3; della sua religiosità, del suo cercare, dialogare con Dio oltre il velo del mondo naturale ha parlato, tra gli altri Liana Bortolon4 in certi quadri, dove la chioma dell’albero diventa la volta celeste, è il cielo ad essere preso, imprigionato tra le foglie e i rami contorti, o forse è l’albero che viene rapito, proiettato su nel cielo, e noi con lui? La religiosità dell’artista si manifesta con evidenza in un altro tema della sua pittura, quello della morte come sacrificio necessario per il riscatto e quindi per la rinascita: un triste Venerdì Santo che prepara la gloria della Resurrezione, una Via Crucis di spine sanguinanti che conduce al miracolo della Pasqua. Il gabbiano morto, il ceppo tagliato, il girasole appassito, l’anguria spaccata, lacerata, la vigna sconvolta dalla tempesta, dalla guerra dei venti opposti, rivivono un sacrificio che è alla base della fede cristiana, ma che ha millenarie radici nelle più arcaiche credenze religiose del mondo contadino.
«Il primo elemento specifico dell’opera di Pedrina è la carica di violenza racchiusa nell’immagine, da cui essa risulta agitata e tenuta in una continua possibilità di variazione come ferma al limite del movimento»: già nel 1971 Roberto Tassi5 coglieva questa caratteristica di fondo del sentire e del dipingere dell’artista, rimasta immutata attraverso le variazioni del linguaggio e di temi in tanti anni di lavoro. Una vitalità drammatica, fatta di tensioni e di flussi di energia, che sembra voler lacerare, far esplodere la composizione e invece le dà un’unità, una compattezza indistruttibile. La consapevolezza della violenza e del dolore come componenti ineliminabili dell’esistere portano l’artista quasi a voler negare la bellezza che nasce dalle sue mani sensibili di colorista veneto; con impeto moralista, iconoclasta.
Pedrina aggredisce, corrode l’armonia della composizione e lo splendore del colore, l’opulenza morbida del nudo femminile, la perfezione del tondo, la serenità della luce estiva; eppure la sua pittura resta un inno alla bellezza, tanto più affermata, gridata, quanto più si vuole distruggerla e smantellarla.

1Tra i primi Pier Carlo Santini nella presentazione della mostra personale alla galleria «Il Fillungo» di Lucca, nel 1975.
2La citazione è tratta da uno scritto di Franco Pedrina che presenta la mostra del febbraio 1980 alla Galleria Bergamini di Milano.
3Nell’introduzione al catalogo al catalogo della personale alla Galleria Prati di Palermo, dicembre 1988.
4In un ampio saggio sulla rivista «Arte», edita da Giorgio Mondatori, n 146 novembre 1984.
5Presentazione della II personale alla Galleria Bergamini di Milano, gennaio 1971.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Sagittaria, Pordenone, febbraio-marzo 1989)

 

 

 


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